di Daria Valletta[1]
Il contributo della giurisprudenza amministrativa in materia di tutela della genitorialità e della famiglia[2]
- Qualche riflessione introduttiva sulla parità di genere all’interno della famiglia nella società contemporanea: una domanda da porsi.
- Il ruolo del G.A. nella tutela in via giurisprudenziale del genitore e della famiglia.
- In particolare: il caso della P.M.A.
- Considerazioni conclusive.
1 – La partecipazione al convegno odierno mi offre la gradita occasione di svolgere qualche breve riflessione sul contributo che la giurisprudenza amministrativa, nel corso degli anni, ha saputo offrire in materia di tutela della genitorialità e della famiglia: il tema mi è particolarmente caro, perché l’effettività di tale tutela, anche giurisdizionale, costituisce un tassello importantissimo del “lungo cammino verso la parità” al quale è dedicato il convegno di oggi. In termini ancora più espliciti, vale forse la pena evidenziare che risulta ben difficile immaginare una reale parità all’interno della comunità tra i vari soggetti che vi partecipano, se questa parità non riesce a realizzarsi, prima di tutto, nell’ambito della “particella elementare” sulla quale si costruisce il consesso sociale, che è la famiglia.
A tal proposito, e prima di approfondire l’oggetto della relazione che sono stata chiamata a svolgere con riflessioni più schiettamente giuridiche, colgo l’occasione per condividere un interrogativo che è sorto in me in conseguenza degli interventi finora ascoltati, e, in particolare, ascoltando i dati statistici relativi alla distribuzione del carico da lavoro familiare tra i componenti del nucleo che ci sono stati riferiti: abbiamo appreso che le indagini statistiche svolte sul punto evidenziano una progressiva riduzione, nel corso degli ultimi anni, della misura percentuale del carico legato al lavoro svolto dalle donne all’interno della famiglia (in particolare: la percentuale del carico di lavoro familiare svolto dalla donna (25-44 anni) sul totale del carico di lavoro familiare della coppia, in cui entrambi i componenti sono occupati, diminuisce dal 71,9% del 2008- 2009 al 67% nel 2013-2014[3] ). Dunque, un dato in sé positivo, giacché induce a pensare a una più equa distribuzione del peso che deriva dal lavoro tra le mura domestiche tra i diversi componenti del nucleo familiari.
D’altro canto, deve pure considerarsi che, nel corso degli ultimi anni, le donne sono andate progressivamente a occupare, in maniera via via più significativa, posizioni lavorative un tempo tradizionalmente riservate agli uomini: basti pensare a quanto accaduto all’interno della magistratura, ordinaria e amministrativa, tra le cui fila oggi si conta un numero certamente significativo di donne.
Dunque, considerando unitamente i due dati, sorge un dubbio: la riduzione del carico di lavoro sopportato dalla donna all’interno della famiglia è stato, effettivamente, tale da consentire alle donne di “liberare” sufficienti energie da investire nell’espletamento dei compiti implicati dalle nuove posizioni lavorative, anche di grande impegno e di elevato profilo, oggi occupate?
Detto in altre parole: il carico familiare di cui le donne si sono alleggerite, è sufficiente a compensare l’aggravio derivante dai percorsi lavorativi intrapresi, oggi in posizioni anche di primo piano?
O, al contrario, dobbiamo ritenere che il quadro che, in concreto, è andato delineandosi preveda, all’attualità, che le donne abbiano finito con il cumulare il carico di lavoro “fuori casa”, spesso assai gravoso, con quello da svolgersi all’interno delle pareti domestiche, solo in certa parte condiviso con altri componenti della famiglia o fatto refluire su personale retribuito? Se così fosse, sarebbe ben arduo concludere che la condizione delle donne sia, effettivamente, migliorata nel tempo.
Sulla questione sono arrivata a maturare una mia personale prospettiva, che, purtroppo, è stata avvalorata dai dati raccolti nel corso degli ultimi due anni, a far data dall’esplosione della pandemia, dati che raccontano di una massiccia fuoriuscita delle donne dal mondo del lavoro: mi sembra che ciò valga a fornire una risposta all’interrogativo sollevato, costituendo un significativo indicatore del fatto che ogni evento in grado di determinare un mutamento, in senso negativo, degli equilibri esistenti nell’ambito dell’organizzazione familiare (ad esempio, come accaduto in epoca recentissima, per la sospensione delle ordinarie attività scolastiche e la riduzione della possibilità di avvalersi di “esterni” per la cura degli anziani) finisce -inesorabilmente, direi- con il tradursi in un conto assai salato da pagare, per le donne in particolare.
Concludo questa breve digressione per ritornare all’oggetto del mio intervento, e cioè il ruolo della giurisprudenza amministrativa in materia di tutela della genitorialità e della famiglia.
2 – Approfondendo l’analisi della giurisprudenza amministrativa nell’ambito di riferimento, si scopre che, anche in questo settore delicatissimo, il ruolo del giudice amministrativo è stato, negli anni, tutt’altro che secondario, riconfermando così, come del resto più volte rimarcato dalla Corte Costituzionale[4], che il G.A. è chiamato a somministrare una tutela piena ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti, allorquando essi siano coinvolti dall’esercizio della funzione amministrativa.
Con specifico riferimento al campo della tutela del genitore lavoratore, c’è da tenere in considerazione che, a far data dalla riforma introdotta con il D.Lgs. 3 febbraio 1993, nr. 29, la giurisdizione amministrativa in ambito giuslavoristico perdura, come noto, solo per i rapporti di pubblico impiego cd. non contrattualizzati di cui all’art. 3 del decreto citato, il che significa che l’evoluzione giurisprudenziale in materia di tutele della genitorialità in tale settore è andata avanti “in parallelo” e, potrebbe dirsi, di pari passo, ad opera dei giudici amministrativi e ad iniziativa del giudice ordinario.
Solo per citare, a titolo meramente esemplificativo, alcuni arresti della giurisprudenza amministrativa in materia, si pensi alle numerose pronunce relative ai congedi parentali, e in particolare al tema del diritto per la lavoratrice madre, nel caso di parto plurimo, di fruire dell’intero congedo, retribuito al 100%, per ciascun figlio: a fronte di posizioni di diverso segno talora assunte dalle Amministrazioni, si registrano diversi arresti dei Tribunali Amministrativi, confermati in grado di appello, che hanno riconosciuto piena tutela alla posizione giuridica soggettiva vantata; di particolare interesse, appare il riconoscimento giurisprudenziale del fatto che l’indisponibilità dell’intero trattamento economico per i congedi ulteriori rispetto al primo costituisce uno degli elementi di valutazione da parte del genitore ai fini della scelta in ordine alla fruizione dei medesimi congedi, con conseguenti possibili ricadute negative sulla cura della prole, con esiti contrari rispetto a quelli che costituiscono la ratio fondamentale che ispira la normativa di settore[5].
Ancora, sono da segnalare le pronunce in tema di discriminazioni nell’accesso al lavoro in pregiudizio delle donne, che hanno costituito occasione per riaffermare che alla lavoratrice madre non può derivare alcuna conseguenza sfavorevole dalla circostanza di trovarsi in stato di gravidanza nel caso di svolgimento di una procedura concorsuale per l’accesso ad un impiego pubblico, con conseguente annullamento di provvedimenti di esclusione da procedure selettive per l’ingresso nelle forze dell’ordine motivati in ragione dello stato di gravidanza della candidata: si è affermato in proposito che lo stato di gravidanza non può essere considerato come una causa di inidoneità psico-fisica della donna al suo eventuale reclutamento nel Corpo, costituendo solo una situazione transitoria che esonera l’interessata dal sottoporsi, temporaneamente, agli accertamenti sanitari previsti dal bando di selezione, e non una causa di inidoneità, pena una inammissibile disparità di trattamento nei confronti della concorrente che vedrebbe così pregiudicata la sua maternità, in violazione di principi di rango costituzionale[6].
Operati tali rapidi cenni, appare interessante soffermarsi sui contributi, per così dire, “peculiari” offerti dalla giurisprudenza amministrativa in relazione al tema in oggetto (trascurando di approfondire oltre gli apporti in materia giuslavoristica, ove, come accennato in precedenza, si registra un andamento in parallelo rispetto all’elaborazione giurisprudenziale offerta dal G.O.): è in tali ulteriori ambiti che, infatti, si coglie compiutamente quanto l’opera dei tribunali amministrativi, in primo e secondo grado, abbia contribuito alla riflessione giuridica nel settore dei diritti fondamentali, pur sempre legati alla tutela della genitorialità e della famiglia, operando talora come un vero e proprio motore propulsore.
Ciò appare di particolare rilievo in considerazione del fatto che, per tradizione culturale o forse per una sorte di “abitudine del pensiero”, si è soliti immaginare il G.O. come l’assoluto protagonista dell’evoluzione giurisprudenziale in materia di tutela della genitorialità e della famiglia, laddove un’analisi più attenta rivela quanto l’attività dei tribunali amministrativi sia stata, a sua volta, determinante, anche nel senso di seminare una sensibilità che, in seguito, ha trovato modo di “sbocciare” in altre sedi.
Plastico esempio del fenomeno appena descritto è offerto dal caso dell’attribuzione al figlio del cognome materno: proprio la giurisprudenza amministrativa, per prima, è pervenuta ad alcune affermazioni di principio che hanno costituito un significativo preludio ai successivi arresti della Corte Costituzionale, avendo
riconosciuto come meritevole di tutela l’interesse del figlio a modificare il proprio cognome e/o ad acquisire il cognome materno.
Fin dagli anni ottanta dello scorso secolo[7] si registrano, infatti, decisioni del giudice amministrativo che hanno accordato tutela all’interesse legittimo al cambiamento del cognome e all’aggiunta di quello materno al paterno in presenza di fondate ragioni di carattere familiare, sociale, economico ed affettivo, con conseguente annullamento dei provvedimenti di segno negativo resi dall’Amministrazione sul punto, sul presupposto che l’interesse fatto valere dal richiedente «può fondarsi sulle più svariate ragioni di ordine morale, economico, familiare e affettivo» e non deve, necessariamente, considerarsi recessivo rispetto all’interesse pubblico a che i cognomi siano tendenzialmente stabili nel tempo[8].
Le pronunce a cui si è fatto riferimento sono intervenute diversi anni prima degli arresti della Corte Costituzionale in materia e, in particolare, della nota sentenza del dicembre 2016 con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, 1° co., c.c., “nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno”, nonché dell’art. 299, 3° co., c.c., “nella parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento dell’adozione”[9]: a fondamento della decisione, la Corte ha evidenziato che la preclusione della possibilità per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome, nonché la possibilità per il figlio di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome della madre, determini un pregiudizio al diritto all’identità personale del minore e, al contempo, costituisca un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare.
Merita segnalare che la Consulta, con l’ordinanza 11 febbraio 2021, n. 18, ha sollevato, disponendone la trattazione innanzi a sé, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, I c., c.c., nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, e con riferimento agli artt. 2, 3 e 117, I c., della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: anche in questa occasione la Corte ha sottolineato che l’attuale sistema di attribuzione del cognome deve considerarsi retaggio di una “concezione patriarcale della famiglia”, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna [10].
Preme segnalare che gli approdi cui è giunto il Giudice costituzionale, appena illustrati, costituiscono il frutto di un percorso avviatosi anche grazie al contributo di elaborazione offerto dal giudice amministrativo, secondo quanto si è in precedenza evidenziato.
Nello stesso solco, meritano di essere rammentati in questa sede i diversi arresti della giurisprudenza amministrativa in materia di tutela della famiglia di fatto e del diritto all’unità familiare, in particolare nel campo del rilascio dei permessi di soggiorno agli stranieri: in più di una occasione, il giudice amministrativo ha rimarcato la necessità di una interpretazione nuova ed evolutiva del concetto di famiglia, che inglobi anche le unioni di fatto tra individui (anche dello stesso sesso), facendo quindi applicazione mediata, anche in via analogica, degli istituti previsti dalla legislazione in materia di immigrazione per le unioni matrimoniali anche alle convivenze.
In tal senso, la Pubblica Amministrazione è stata ritenuta onerata a valutare l’esistenza di un rapporto di convivenza stabile debitamente attestato con documentazione ufficiale, allorché si tratti di decidere sull’istanza di rilascio di permesso di soggiorno per motivi familiari: è stato osservato che, nell’interpretazione della normativa sui permessi di soggiorno, non può non tenersi in considerazione il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’articolo 8 C.E.D.U., ormai altresì consacrato, a livello di legislazione interna, anche dall’articolo 1, comma 36, legge 20 maggio 2016 n. 76, sicché “non può non applicarsi, in base ad una interpretazione analogica anche al partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata con documentazione ufficiale” [11].
Affermazioni analoghe si rintracciano in giurisprudenza, in tema di misure di allontanamento, anche con riferimento al periodo di convivenza svoltosi anteriormente all’introduzione della disciplina di cui alla L.76/2016 sulle unioni civili, suscettibile di essere valorizzato, anche sulla scorta delle indicazioni offerte dalla Corte EDU, ove si tratti di fare applicazione di una misura di allontanamento o di negare il rilascio di un permesso di soggiorno al fine di evitare che venga provocato un sacrificio sproporzionato del diritto alla vita privata e familiare per il soggetto portatore dell’interesse[12].
Ancora, sempre nel campo delle unioni civili, i tribunali amministrativi si sono talora espressi sul tema delle modalità di celebrazione delle unioni civili, ritenendo discriminatori i provvedimenti amministrativi che prevedevano modalità significativamente diverse, e deteriori, per la celebrazione delle unioni civili rispetto alle analoghe previsioni dettate per la celebrazione dei matrimoni, ad esempio introducendo previsioni che individuavano un luogo di celebrazione dell’unione diverso da quello previsto per i matrimoni civili, ovvero stabilendo che la celebrazione delle unioni civili avesse luogo a cura di soggetti (nella specie, consiglieri comunali) differenti da quelli (il sindaco) cui era demandato il compito di officiare i matrimoni eterosessuali[13] .
Anche in precedenza, già in occasione del parere reso dalla Sezione Consultiva del Consiglio di Stato in ordine allo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri recante “Disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile ai sensi dell’articolo 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76”, il Consiglio di Stato aveva reso alcuni importanti chiarimenti in materia di unioni civili, in particolare con riferimento alla possibilità, ventilata da alcuni, di una “obiezione di coscienza” motivabile con il rifiuto, in base a convinzioni culturali, religiose o morali, di concorrere – nella qualità di sindaco – a rendere operativo l’istituto della unione civile tra persone dello stesso sesso: in tale occasione era stato evidenziato come, allo stato del vigente quadro normativo, non risultino rintracciabili i presupposti per opporre una tale “obiezione”[14].
Ancora, prima che le SS.UU. della Cassazione intervenissero nell’anno 2018 a ricondurre le relative controversie nell’alveo della giurisdizione ordinaria[15], il G.A. si era, altresì, confrontato con il tema della trascrizione dei matrimoni omosessuali conclusi all’estero, in tal caso concludendo per l’insussistenza di un diritto alla trascrizione in difetto di una disciplina nazionale in materia di matrimonio omosessuale, osservando che la trascrizione dell’atto in questione doveva intendersi preclusa dal difetto di uno degli indispensabili contenuti dell’atto di matrimonio trascrivibile (la cui verifica preliminare deve ritenersi compresa nei doverosi adempimenti affidati all’ufficiale dello stato civile), e cioè quello della diversità di sesso tra i nubendi)[16]. Merita di essere, per completezza, segnalato che, in coerenza con tale approdo, il G.O. ha ritenuto che i matrimoni contratti all’estero da un cittadino italiano e uno straniero non possono essere trascritti e riconosciuti come matrimoni, ma come unioni civili ai sensi della legge 76/2016[17].
3 – Prima di concludere questo breve excursus, intendo accennare a un altro tema in riferimento al quale l’apporto della giurisprudenza amministrativa è stato, e risulta ancora, di primario rilievo, e cioè quello della procreazione medicalmente assistita (P.M.A.): sinteticamente ricostruendo il quadro definitorio e quello della normativa vigente, è possibile osservare che, in linea generale, la procreazione si definisce medicalmente assistita allorquando il concepimento non è conseguenza naturale del rapporto tra un uomo e una donna, ma conseguenza di un intervento di assistenza tecnica curato da sanitari specializzati.
Si distingue abitualmente tra una P.M.A. «omologa» (nel caso in cui il materiale biologico appartiene ai genitori del nascituro) e una P.M.A. «eterologa» (se il materiale biologico non appartiene ad uno dei due genitori o a nessuno dei due): il principale riferimento normativo in materia è costituito dalla legge 19 febbraio 2004, n. 40 che, originariamente, all’4, comma 3, prevedeva un esplicito divieto di fecondazione con gameti estranei alla coppia.
Sul punto, come noto, nell’anno 2014 si è espressa la Corte Costituzionale[18], dichiarando l’illegittimità costituzionale della disposizione in argomento nella parte in cui essa stabiliva il divieto del ricorso a tecniche di «procreazione medicalmente assistita» di tipo eterologo; nel pervenire a tali conclusioni, la Corte ha richiamato: la generale libertà di autodeterminazione in ordine alla scelta di diventare genitori; il diritto alla salute, anche psichica, suscettibile di essere negativamente inciso dall’impossibilità di formare una famiglia con prole con il proprio partner; la disparità di trattamento determinata dalla disciplina censurata tra le coppie dotate di maggiori capacità economiche, che potrebbero far ricorso alla tecnica della P.M.A. eterologa recandosi all’estero, e le altre; l’assenza della necessità di tutelare il diritto all’identità genetica del nato e di significativi rischi per la salute dei donanti e dei donatari.
Successivamente alla pronuncia della Corte appena richiamata, il D.P.C.M. del 12/01/2017, recante la “Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502”, ha inserito nelle prestazioni che il Servizio Sanitario Nazionale deve garantire anche quelle relative alla fecondazione assistita di tipo eterologo, e ha stabilito che le coppie che si sottopongono alle procedure di P.M.A. eterologa contribuiscono ai costi delle attività nella misura fissata dalle Regioni e dalle Province Autonome.
In questo contesto normativo, si registrano alcune pronunce del giudice amministrativo di grande interesse, con le quali sono stati sindacati episodi di esercizio di potere dal contenuto concretamente discriminatorio nei riguardi di soggetti che avevano scelto di far ricorso alla procreazione medicalmente assistita di tipo “eterelogo”, introducendo un limite massimo di cicli di trattamento fruibili in dipendenza dell’età della gestante, diversamente da quanto stabilito in relazione alle coppie che avessero fatto ricorso alla P.M.A. omologa, ovvero escludendo o limitando in maniera irragionevole il finanziamento di tali cure mediche.
In occasioni di tali pronunce è stato rimarcato che, se è vero che il riconoscimento del diritto alla salute non è assoluto e incontra limiti sia esterni, posti dall’esistenza di diritti costituzionali di pari rango, che interni, posti dall’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale, e prima di tutti il limite di carattere finanziario, che si riflettono sull’organizzazione regionale del servizio sanitario, è, d’altro canto, altrettanto vero che le Regioni devono garantire ragionevolmente il medesimo trattamento a tutti i soggetti che versino nella stessa sostanziale situazione di bisogno, a tutela del nucleo irriducibile del diritto alla salute (art. 32 Cost.), quale diritto dell’individuo e interesse della collettività, o di altri diritti costituzionalmente rilevanti –artt. 2, 3, 29 e 31 Cost. – e in applicazione, comunque, del superiore principio di eguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3, comma secondo, Cost.
Di conseguenza, un generico richiamo alle esigenze finanziarie di contenimento della spesa non può ritenersi sufficiente a giustificare, attraverso la previsione di sbarramenti rigidi di accesso alla P.M.A. eterologa, una significativa disparità di trattamento tra interventi da considerarsi, in ogni caso, complementari sul piano dell’assistenza terapeutica quali species di un medesimo genus.
Ciò in quanto, in definitiva, fatta salva la discrezionalità dell’Amministrazione, le scelte operate devono comunque fondarsi su un criterio discretivo contraddistinto da intrinseca coerenza logica, specie nel caso in cui ineriscano alla sfera dei diritti fondamentali, come nella fattispecie qui in commento[19].
Sulla scorta di questi principi è stata riconosciuta l’illegittimità degli atti con cui la Regione Lombardia aveva stabilito di non sovvenzionare le prestazioni di «procreazione medicalmente assistita» di tipo eterologo (a differenza delle prestazioni di PMA di tipo omologo, che sono state poste a carico del Servizio Sanitario Nazionale, con il pagamento di un ticket da parte dell’assistito)[20]; del pari è stata ritenuta illegittima la scelta regionale di fissare requisiti di accesso agganciati al limite di età con un limite massimo di cicli fruibili, per le sole P.M.A. eterologhe[21].
4 – Concludendo il discorso sinora svolto, e alla luce della breve rassegna della giurisprudenza amministrativa in precedenza effettuata, sembra possibile affermare, senza tema di smentita, che anche il Giudice Amministrativo è chiamato a confrontarsi costantemente con i delicatissimi temi legati alla tutela della genitorialità e della famiglia, alcuni dei quali sono stati richiamati nel presente contributo.
E, del resto, i recenti tragici accadimenti legati all’emergenza sanitaria con la quale la comunità mondiale ha dovuto confrontarsi nel corso degli ultimi due anni, hanno ulteriormente posto in risalto quale ruolo, di primo piano, competa nel nostro Paese al Giudice Amministrativo anche allorquando si tratti di assicurare la doverosa tutela dei diritti fondamentali: si pensi, a titolo esemplificativo, al delicato bilanciamento che le corti amministrative sono state chiamate a operare tra il diritto alla salute e il diritto all’istruzione.
[1] Magistrato amministrativo in servizio presso il T.A.R. Campania, componente del Comitato Pari Opportunità della Giustizia Amministrativa e vicepresidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Amministrativi.
[2] Lo scritto riproduce la relazione al convegno “Il lungo cammino verso la parità”, organizzato dal Comitato pari opportunità della Giustizia amministrativa e dall’Ufficio studi, massimario e formazione della Giustizia amministrativa e tenutosi a Roma, Palazzo Spada, il 26 novembre 2021.
[3] “Misure a sostegno della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e per la conciliazione delle esigenze di vita e di lavoro” Audizione dell’Istituto nazionale di statistica, Dott.ssa Linda Laura Sabbadini, XI Commissione Lavoro pubblico e privato Camera dei deputati Roma, 26 febbraio 2020;
[4] cfr., ex multis, sentenza 27 aprile 2007, n. 140 (Gazzetta ufficiale, 1 a serie speciale, 2 maggio 2007, n. 17); Pres. Bile, Est. Mazzella, in cui si afferma: “ (..) legittimamente la norma censurata ha riconosciuto esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche una tutela risarcitoria, per equivalente o in forma specifica, per il danno asseritamente sofferto anche in violazione di diritti fondamentali in dipendenza dell’illegittimo esercizio del potere pubblico da parte della pubblica amministrazione”.
[5] Cfr., Cons. St., Sez. II; 20 luglio 2021, nr. 5890: “La tesi dell’Amministrazione secondo la quale le esigenze di cura del bambino cui è preordinato il congedo in questione sarebbero comunque garantite dalla facoltà del genitore di fruire di 45 giorni di congedo per ogni figlio, pur senza tuttavia fruire del 100% dell’ordinario trattamento economico, non è condivisibile. Infatti, l’indisponibilità dell’intero trattamento economico per i congedi ulteriori rispetto al primo costituisce indubbiamente uno degli elementi di valutazione da parte del genitore ai fini della scelta in ordine alla fruizione dei medesimi congedi e l’eventuale scelta negativa cui tale elemento conduca si ripercuote sulla cura dei figli. Come rilevato dal Tar, la piena attuazione della finalità perseguita dall’istituto in questione “rimane logicamente e razionalmente legata al riconoscimento del beneficio per ciascuno dei figli”.
[6] Cfr., Tar Lazio, Roma, Sez. II ter, 11 maggio 2021, nr. 7960: “Con riferimento alle censure proposte va rilevato che sulla base dei principi di rango costituzionale (artt. 3 e 51 della Costituzione) è garantita a tutti i cittadini senza distinzione di sesso la possibilità di accesso agli uffici pubblici, e ciò in ragione del più generale principio di uguaglianza, senza possibilità di ammissione di deroghe. Anche sul piano della normativa comunitaria la direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’applicazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto concerne l’accesso al lavoro, stabilisce, all’art. 3, n.1, che l’applicazione del suddetto principio comporta l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda le condizioni di accesso, compresi i criteri di selezione, agli impieghi o posti di lavoro qualunque sia il settore o il ramo di attività. Inoltre la tutela della maternità è stabilita anche sul piano nazionale con la legge 30 dicembre 1971, n. 1204 sulla tutela delle lavoratrici madri nonché nella legge 10 aprile 1991 n. 125 sulle pari opportunità.
Tenendo conto dei predetti principi e dell’orientamento della giurisprudenza sulla materia (cfr. in termini, Tar Lazio, Roma, sez. I bis, 25 ottobre 2011, n. 8213) alla lavoratrice madre non può derivare alcuna conseguenza sfavorevole dalla circostanza di trovarsi nello stato di gravidanza nel caso di svolgimento di una procedura concorsuale per l’accesso ad un impiego pubblico, come nella fattispecie.
Pertanto deve considerarsi illegittima la norma del bando impugnata nella parte in cui dispone l’esclusione dal concorso nei confronti delle candidate che alla data del 31.8.2016 non possono essere sottoposte agli accertamenti sanitari di rito in quanto, a tale data, in stato di gravidanza. Va da sé che una tale norma contrasta con i predetti principi costituzionali, determinando una inammissibile disparità di trattamento nei confronti di una concorrente che vede così pregiudicata la sua maternità. Va, ancora, evidenziato come lo stato di gravidanza non possa essere considerato come una causa di inidoneità psico-fisica della donna al suo eventuale reclutamento nel Corpo, limitandosi l’art. 3, secondo comma del D.M. n. 155 del 2000 a disporre soltanto che “lo stato di gravidanza costituisce temporaneo impedimento all’accertamento”. In altri termini, il suddetto stato di gravidanza esonera l’interessata dal sottoporsi temporaneamente all’accertamento, ma non può essere considerato di per sé come una causa di inidoneità come è avvenuto nella fattispecie sulla base della norma del bando (i cui contenuti si rivelano in distonia con la citata previsione regolamentare e) della quale si è, per le ragioni dianzi declinate, acclarata l’illegittimità.”
[7] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 13 novembre 1984, n. 1374.
[8] Cfr. Cons. Stato , sez. IV , 25/01/1999 , n. 63, in cui si afferma: “Ritenuto che il potere discrezionale della p.a. di disporre o negare l’aggiunta di cognome deve essere esercitato tenendo conto dell’evoluzione della coscienza sociale, del costume e del contesto europeo nel quale il nostro Paese è inserito, e ritenuto, altresì, che l’aggiunta del cognome materno al cognome del padre legittimo non può ingenerare dubbi od equivoci sullo status del figlio e che l’aggiunta del cognome materno non ha carattere di eccezionalità, deve essere concesso al minore, figlio legittimo dei genitori da molto tempo ritualmente separati d’aggiungere al cognome patronimico il cognome materno qualora egli sia con tale cognome, sin dalla nascita, comunemente identificato e conosciuto nel contesto familiare, scolastico e sociale d’appartenenza, salvo che all’aggiunta s’oppongano valide, certe proporzionate ragioni ostative”; Cons. Stato, Sez. IV, 12 febbraio 2002, nr. 3533; Cons. Stato sez. I, 17/03/2004, n.515, in cui si afferma: “È viziato da difetto di motivazione il provvedimento col quale il ministro dell’Interno, sul presupposto che il cognome paterno sia necessario per identificare lo “status” di figlio legittimo, rigetti l’istanza di mutamento del cognome (con sostituzione di quello materno al cognome paterno)”
[9] Corte Cost., 21/12/2016, n.286.
[10] Corte Cost, 11/02/2021, (ud. 14/01/2021, dep. 11/02/2021), n.18: “(..)è stato osservato sin da epoca risalente che la prevalenza attribuita al ramo paterno nella trasmissione del cognome non può ritenersi giustificata dall’esigenza di salvaguardia dell’unità familiare, poiché «è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo», in quanto l’unità «si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità» (sentenza n. 133 del 1970); nel caso in esame, ancora una volta, «[l]a perdurante violazione del principio di uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi […] contraddice, ora come allora, quella finalità di garanzia dell’unità familiare, individuata quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi» (sentenza n. 286 del 2016);
che «la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno» (ancora sentenza n. 286 del 2016);
che, infine, il dubbio di legittimità costituzionale che investe l’art. 262, primo comma, cod. civ., attiene anche alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 14 (Divieto di discriminazione) CEDU;
che, a questo riguardo, la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo contro Italia, ha ritenuto che la rigidità del sistema italiano – che fa prevalere il cognome paterno e nega rilievo ad una diversa volontà concordemente espressa dai genitori – costituisce una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, determinando altresì una discriminazione ingiustificata tra i genitori, in contrasto con gli art. 8 e 14 CEDU”.
[11] Cfr. Cons. St., sez. III, 31/10/2017, n.5040;
[12] cfr. Cons. St., sez. III, 02/07/2020, (ud. 11/06/2020, dep. 02/07/2020), n.4274.
[13] Cfr. Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, 14 dicembre 2016, nr. 1791 “ (…) se si ammettesse che le modalità (anche esteriori) di formazione del vincolo dell’unione civile potessero differire così sensibilmente rispetto a quelle riservate alla costituzione del vincolo matrimoniale, da essere ictu oculi percepibili come deminutio del primo rispetto al secondo ciò significherebbe inevitabilmente un depotenziamento ontologico del nuovo istituto e una frustrazione/violazione della complessiva finalità di tutela espressamente perseguita dal comma 20.
Merita, pertanto, condivisione la censura dedotta sub c) del ricorso introduttivo, laddove si afferma che “la circostanza che il luogo individuato per la costituzione sia diverso da quello assegnato ai matrimoni civili dall’art. 3 del citato regolamento rende, ex se, illegittima la delibera di giunta comunale n. 199/2016” e si sostiene che il comma 20 “dovrebbe esplicitare la sua portata regolamentare ” non solo “rispetto al rapporto generato dall’unione già costituita”, ma anche “rispetto alla fase genetica di quel rapporto”.
5.2. Parimenti condivisibile è l’ultimo profilo del motivo sub a) del ricorso introduttivo con cui i ricorrenti lamentano che la celebrazione delle unioni civili sia effettuata da soggetti (i consiglieri comunali che hanno comunicato la propria disponibilità e, in caso di indisponibilità dei consiglieri, il dipendente comunale cui sono state delegate le funzioni di ufficiale di stato civile) differenti da quello (sindaco) cui è attribuito il compito di officiare i matrimoni eterosessuali.
Invero, il punto 3 del dispositivo dell’impugnata deliberazione n. 199/2016 non si limita affatto, come pure sostiene la difesa comunale, a indicare i soggetti delegati dal Sindaco per celebrare le unioni civili (consiglieri comunali disponibili; in mancanza il funzionario delegato quale Ufficiale di Stato civile), ma al contrario sia per l’organo che adotta la disposizione (non il Sindaco quale organo monocratico, bensì l’organo collegiale Giunta), sia per il categorico tenore letterale della disposizione (si stabilisce che le celebrazioni e costituzioni civili siano effettuate dagli anzidetti soggetti) non costituisce affatto esercizio di delega, bensì individua aprioristicamente e in via generale la platea dei soggetti abilitati in via esclusiva alla celebrazione delle unioni civili.
E tra questi soggetti non figura il Sindaco (come invece prevede, unitamente alla facoltà di delega, l’art. 2 del Regolamento per la celebrazione dei matrimoni civili).
Ma questa preventiva e generalizzata (auto)esclusione del Sindaco costituisce evidente manifestazione di quella obiezione di coscienza non prevista nel caso della legge n. 76/2016 (come evidenziato dal parere Cons. Stato n. 1695/2016) e un altrettanto evidente tentativo di aggirare, nella fase di attuazione della legge, la volontà espressa sul punto dal Parlamento, allorquando ha respinto un emendamento volto ad introdurre per i sindaci l'<obiezione di coscienza>”.
[14] Cfr. Sezione Consultiva per gli Atti Normativi del Consiglio di Stato, Adunanza del 15 luglio 2016 (parere 21/07/2016, n. 1695/2016): “Una seconda questione di carattere generale, che attiene ai doveri di adempimento da parte dei Comuni in ordine alle richieste formulate dalle coppie omosessuali aventi diritto, riguarda la possibilità stessa, evocata di recente da alcuni sindaci, di una “obiezione di coscienza” motivabile con il rifiuto, in base a convinzioni culturali, religiose o morali, di concorrere – appunto, nella qualità di sindaco – a rendere operativo l’istituto della unione civile tra persone dello stesso sesso.
Ritiene il Consiglio di Stato che il rilievo giuridico di una “questione di coscienza” – affinché soggetti pubblici o privati si sottraggano legittimamente ad adempimenti cui per legge sono tenuti – può derivare soltanto dal riconoscimento che di tale questione faccia una norma, sicché detto rilievo, che esime dall’adempimento di un dovere, non può derivare da una “auto-qualificazione” effettuata da chi sia tenuto, in forza di una legge, a un determinato comportamento.
Il primato della “coscienza individuale” rispetto al dovere di osservanza di prescrizioni normative è stato affermato – pur in assenza di riconoscimento con legge – nei casi estremi di rifiuto di ottemperare a leggi manifestamente lesive di principi assoluti e non negoziabili (si pensi alla tragica esperienza delle leggi razziali). In un sistema costituzionale e democratico, tuttavia, è lo stesso ordinamento che deve indicare come e in quali termini la “coscienza individuale” possa consentire di non rispettare un precetto vincolante per legge.
Allorquando il Legislatore ha contemplato (si pensi all’obiezione di coscienza in materia di aborto o di sperimentazione animale) l’apprezzamento della possibilità, caso per caso, di sottrarsi ad un compito cui si è tenuti (ad esempio, l’interruzione anticipata di gravidanza), tale apprezzamento è stato effettuato con previsione generale e astratta, di cui il soggetto “obiettore” chiede l’applicazione.
Nel caso della legge n. 76/2016 una previsione del genere non è stata introdotta; e, anzi, dai lavori parlamentari risulta che un emendamento volto ad introdurre per i sindaci l’”obiezione di coscienza” sulla costituzione di una unione civile è stato respinto dal Parlamento, che ha così fatto constare la sua volontà contraria, non aggirabile in alcun modo nella fase di attuazione della legge.
Del resto, quanto al riferimento alla “coscienza individuale” adombrato per invocare la possibilità di “obiezione”, osserva il Consiglio di Stato che la legge, e correttamente il decreto attuativo oggi in esame, pone gli adempimenti a carico dell’“ufficiale di stato civile”, e cioè di un pubblico ufficiale, che ben può essere diverso dalla persona del sindaco.
In tal modo il Legislatore ha affermato che detti adempimenti, trattandosi di disciplina dello stato civile, costituiscono un dovere civico e, al tempo stesso, ha posto tale dovere a carico di una ampia categoria di soggetti – quella degli ufficiali di stato civile – proprio per tener conto che, tra questi, vi possa essere chi affermi un “impedimento di coscienza”, in modo che altro ufficiale di stato civile possa compiere gli atti stabiliti nell’interesse della coppia richiedente.
Del resto, è prassi ampiamente consolidata già per i matrimoni che le funzioni dell’ufficiale di stato civile possano essere svolte da persona a ciò delegata dal sindaco, ad esempio tra i componenti del consiglio comunale, sicché il problema della “coscienza individuale” del singolo ufficiale di stato civile, ai fini degli adempimenti richiesti dalla legge n. 76/2016, può agevolmente risolversi senza porre in discussione – il che la legge non consentirebbe in alcun caso – il diritto fondamentale e assoluto della coppia omosessuale a costituirsi in unione civile”.
[15] Cfr. Cassazione civile, sez. Unite, Sentenza 27/06/2018 n° 16957: “La questione relativa alla legittimità dell’atto del Prefetto che, in forza dei poteri di vigilanza sul Sindaco, abbia ordinato all’Ufficiale dello stato civile di annullare la trascrizione, nei relativi registri, di un matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, ritenendolo inesistente per la mancanza del requisito indefettibile della diversità di genere della coppia, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario e non a quella amministrativa, poiché la soluzione della controversia comporta l’esame, in via pregiudiziale, quale antecedente logico necessario, della validità nel nostro ordinamento del matrimonio contratto all’estero, che, riguardando una questioni di “status”, ex art. 8, co. 2, c.p.a. è esclusivamente riservata all’autorità giudiziaria ordinaria. (Cassa con rinvio, Cons. St., 26/10/2015)”.
[16] Cfr. Cons. St., Sez. III, 8 ottobre 2015, nr. 4899: “ (…) Secondo il sistema regolatorio di riferimento (per come dianzi riassunto), un atto siffatto risulta sprovvisto di un elemento essenziale (nella specie la diversità di sesso dei nubendi) ai fini della sua idoneità a produrre effetti giuridici nel nostro ordinamento (Cass. Civ., sez. I, 9 febbraio 2015, n.2400; sez. I, 15 marzo 2012, n.4184).
Che si tratti di atto radicalmente invalido (cioè nullo) o inesistente (che appare, tuttavia, la classificazione più appropriata, vertendosi in una situazione di un atto mancante di un elemento essenziale della sua stessa giuridica esistenza), il matrimonio omosessuale deve, infatti, intendersi incapace, nel vigente sistema di regole, di costituire tra le parti lo status giuridico proprio delle persone coniugate (con i diritti e gli obblighi connessi) proprio in quanto privo dell’indefettibile condizione della diversità di sesso dei nubendi, che il nostro ordinamento configura quale connotazione ontologica essenziale dell’atto di matrimonio.
2.2- Così riscontrata l’inattitudine del matrimonio omosessuale contratto all’estero da cittadini italiani di produrre qualsivoglia effetto giuridico in Italia, occorre esaminare il regime positivo della sua trascrivibilità negli atti dello stato civile.
Risulta, al riguardo, decisiva la previsione dell’art.64 del d.P.R. 3 novembre 2000, n.396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile) che, là dove cataloga (con un’elencazione tassativa) gli elementi e i contenuti (formali e sostanziali) prescritti per la trascrivibilità dell’atto di matrimonio, impone evidentemente (ancorchè implicitamente) all’ufficiale dello stato civile il potere (rectius: il dovere) di controllarne la presenza, prima di procedere alla trascrizione dell’atto (da valersi quale atto dovuto, pur a fronte della sua natura dichiarativa, e non costitutiva, solo se ricorrono tutte le condizioni elencate nella predetta disposizione).
Ne consegue che il corretto esercizio della predetta potestà impedisce all’ufficiale dello stato civile la trascrizione di matrimoni omosessuali celebrati all’estero, per il difetto della condizione relativa alla “dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e moglie”, prevista dall’art.64, comma 1, lett. e), d.P.R. cit., quale condizione dell’atto di matrimonio trascrivibile (così come dall’art.16, d.P.R. cit., rubricato “Matrimonio celebrato all’estero”, che utilizza, evidentemente, la dizione “sposi” nell’unica accezione codicistica, codificata all’art.107 c.c., di marito e moglie).
Anche escludendo, quindi, l’applicabilità alla fattispecie considerata del fattore ostativo previsto all’art.18 d.P.R. cit. (non potendosi qualificare come contrario all’ordine pubblico il matrimonio tra persone dello stesso sesso), la trascrizione dell’atto in questione deve intendersi preclusa proprio dal difetto di uno degli indispensabili contenuti dell’atto di matrimonio trascrivibile (e la cui verifica preliminare deve ritenersi compresa nei doverosi adempimenti affidati all’ufficiale dello stato civile)”.
[17] Cfr. Cass. civ., sez. I, 14 maggio 2018, n. 11696: “La definizione, ai sensi degli articoli 32-bis e 32-quinquies della l. 31 maggio 1995 n. 218, degli effetti del matrimonio e dell’unione civile contratti all’estero da cittadini italiani non può essere temporalmente limitata alle relazioni coniugali o alle unioni giuridicamente riconosciute contratte dopo l’entrata in vigore della l. 20 maggio 2016 n. 76, né può essere condizionata dalla data d’instaurazione del giudizio. L’applicazione di tali disposizioni ai rapporti sorti prima della entrata in vigore della legge n. 76 del 2016 non costituisce una deroga al principio d’irretroattività della legge, ma una conseguenza della specifica funzione di coordinamento e legittima circolazione degli status posta alla base della loro introduzione.
La non contrarietà all’ordine pubblico internazionale del riconoscimento del matrimonio e delle unioni civili o istituti analoghi contratti all’estero è consacrata dagli articoli 32-bis e 32-quinquies della legge n. 218 del 1995. Infatti, gli atti di matrimonio e di unioni riconosciute producono senz’altro effetti giuridici nell’ordinamento italiano secondo il regime di convertibilità stabilito da tali norme.
L’art. 32-bis comporta la preminenza del modello dell’unione civile, adottato nel diritto interno. Pertanto, il matrimonio contratto all’estero da coppia omoaffettiva formata da cittadino italiano e da cittadino straniero non è trascrivibile come tale, ma come unione civile. L’art. 32-bis non trova invece applicazione nell’ipotesi in cui venga richiesto il riconoscimento di un matrimonio contratto all’estero da due cittadini stranieri.
La trascrizione del matrimonio omosessuale come unione civile (c.d. downgrading) non produce effetti discriminatori per ragioni di orientamento sessuale, dal momento che la scelta del modello di unione riconosciuta tra persone dello stesso sesso negli ordinamenti degli Stati membri del Consiglio d’Europa è rimessa al libero apprezzamento degli Stati stessi, salva la definizione di uno standard di tutele coerenti con l’interpretazione del diritto alla vita familiare fornita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”.
[18] Cfr. Corte Cost. n. 162 del 10 giugno 2014: “Ritenuto che la scelta di una coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà riconducibile agli artt. 2, 3, e 31 cost. poiché concerne la sfera privata e familiare, e ritenuto, altresì, che la determinazione di avere, o meno, un figlio, concernendo anche la coppia assolutamente sterile e infertile, attiene alla sfera più intima ed intangibile della persona, umana, non può che essere intangibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali, anche quando la determinazione sia esercitata mediante la scelta di ricorrere, a tale scopo, alla tecnica di p.m.a. di tipo eterologo, poiché anch’essa attiene a questa sfera, è costituzionalmente illegittimo l’art. 4 comma 3 l. n. 40 del 2004, nella parte in cui stabilisce il divieto del ricorso a tecniche di p.m.a. di tipo eterologo, qualora sia stata diagnostica alla coppia una patologia che sia causa di sterilità od infertilità assolute ed irreversibili; sono altresì costituzionalmente illegittimi l’art. 9 commi 1 e 3 della stessa legge, limitatamente alle parole “in violazione del divieto di cui all’art. 4, comma 3”, nonché l’art. 12, comma 1 della medesima legge nei limiti di cui in motivazione”.
[19] Cfr. Cons. St., Sez. III, 19 novembre 2020, nr. 7343: “Vale premettere, in base ad un orientamento già espresso da questa Sezione, che il diritto alla salute, cui è ricondotto il ricorso alla PMA anche eterologa, non è assoluto e incontra limiti sia esterni, posti dall’esistenza di diritti costituzionali di pari rango, che interni, posti dall’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale. Ebbene, vero è che l’organizzazione dell’amministrazione si scontra con il limite della capacità finanziaria e che dunque deve contemperare l’esercizio del diritto alla salute da parte del singolo assistito in accordo con l’eguale riconoscimento a parità di sostanziali condizioni, da parte degli altri aventi diritto, in un contesto nel quale alla crescita, per qualità e per quantità della domanda sanitaria corrisponde la limitatezza delle strutture pubbliche e il sempre più rigoroso contenimento delle risorse finanziarie sottoposte a vincoli di bilancio assai stringenti. La Regione deve garantire ragionevolmente il medesimo trattamento a tutti i soggetti che versino nella stessa sostanziale situazione di bisogno, a tutela del nucleo irriducibile del diritto di salute (art. 32 Cost.), quale diritto dell’individuo e interesse della collettività, o di altri costituzionalmente rilevanti ed in applicazione, comunque del superiore principio di uguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3 Cost. (Consiglio di Stato, sez. III, 20 luglio 2016, n. 3297).
7.3. Orbene, fatta salva la discrezionalità dell’Amministrazione, le scelte operate devono comunque fondarsi su un criterio discretivo contraddistinto da intrinseca coerenza logica, specie nel caso in cui ineriscano alla sfera dei diritti fondamentali.
Tanto non è a dirsi nel caso qui in rilievo rispetto alla distinzione di regime tracciata dalla Regione tra PMA omologa e PMA eterologa quanto ai presupposti e ai limiti di accesso, posto che lo studio di fattibilità richiamato dalla difesa regionale non appare idoneo a provare le ragioni di tale scelta, costituendo un ordinario strumento ricognitivo delle previsioni di spesa connesse alla organizzazione del servizio e che, però, non reca affatto evidenza del distinto e più significativo profilo dei limiti di sostenibilità economica all’interno degli equilibri di bilancio della Regione. Non può, dunque, un generico richiamo alle esigenze finanziarie di contenimento della spesa fondare, attraverso la previsione di sbarramenti rigidi di accesso alla PMA eterologa, una così significativa disparità di trattamento tra interventi che vanno considerati complementari sul piano dell’assistenza terapeutica quali species di un medesimo genus”.
[20] Cfr. Cons. St., Sez. III, 23 giugno 2016, nr. 3297: “La Regione, pur muovendo da un iniziale approccio che ha tenuto conto delle esigenze delle coppie interessate alla P.M.A. di tipo omologo, non ha poi parimenti considerato le esigenze di quelle interessate alla P.M.A. di tipo eterologo, pure penalizzate in egual modo dalla mancanza di adeguate risorse economiche per poter accedere a tali prestazioni, che la Corte costituzionale ha equiparato, sul piano della tutela del diritto alla salute, a quelle di tipo omologo.
- La doverosa considerazione delle esigenze finanziarie da parte dell’Amministrazione non possono indurla a discriminare, come è avvenuto nel caso di specie, talune prestazioni all’interno di una categoria di medesimi assistiti da trattare in modo unitario, incidendo negativamente, per i soggetti discriminati, sul loro diritto alla salute, per quanto “finanziariamente condizionato”, e sul nucleo “irriducibile” ed essenziale del loro diritto, quale affermato e configurato dalla Corte costituzionale.
18.1. Se scelta vi è e vi deve essere, perciò, l’Amministrazione deve individuare un ragionevole punto di raccordo e di bilanciamento tra i due valori costituzionali, la salute e l’equilibrio finanziario.
18.2. Poiché è anzitutto nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale che il diritto alla fecondazione eterologa deve trovare attuazione, l’impedimento della sua attuazione, come ha chiarito la Corte Costituzionale nella sentenza n. 162 del 10 giugno 2014, non è «giustificabile neppure richiamando l’esigenza di intervenire con norme primarie o secondarie per stabilire alcuni profili della disciplina della PMA di tipo eterologo».
[21] Cfr. Cons. St., Sez. III, 19 novembre 2020, nr. 7343: “In definitiva, se ha una sua plausibilità logica l’affermazione di principio secondo cui i rischi connessi alla gravidanza aumentino con l’avanzare dell’età della donna e possano ragionevolmente incrementarsi nel caso di ovodonazione, allo stesso tempo non può dirsi qui sufficientemente dimostrato che il limite di età, fissato nel quarantatreesimo anno, costituisca la soglia limite oltre la quale le tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo perdano la loro efficacia ovvero si rivelino finanche pericolose sì da poter ancorare, in modo rigido, a tale soglia di età (43 anni) la previsione più elastica mutuabile dal dato normativo di riferimento che recepisce come criterio discretivo quello dell’“età potenzialmente fertile” dei soggetti. Tale parametro non può che essere ponderato alla luce delle risultanze scientifiche che tengano conto dell’utilità della tecnica e delle possibili complicanze che può ingenerare una gravidanza in età eccessivamente avanzata; da qui il suggerimento di sconsigliare comunque la pratica eterologa su donne di età superiore a 50 anni, come espressamente affermato nel documento in argomento. E d’altro canto, le singole Regioni hanno adottato soluzioni differenziate in ordine al parametro dell’età della donna, non tutte essendosi uniformate alla proposta – proprio perché sganciata da univoche evidenze scientifiche ma ancorata a profili di programmazione finanziaria – di valorizzare il limite di 43 anni indicato dalla Conferenza, a conferma della inettitudine del suddetto limite ad orientare valutazioni concludenti sulla capacità della tecnica in argomento di mantenere la propria efficacia ovvero sufficienti margini di sicurezza”.