Alfredo G. Allegretta[1]
Il Giudice Amministrativo monocratico: delle buone intenzioni, delle strade che esse lastricano e dove tipicamente le medesime portano
Si osserva ormai agevolmente una certa ciclicità nel dibattito esterno ed interno alla giurisdizione amministrativa in relazione ad una possibile riforma strutturale della stessa nel quadro della quale si realizzi un più marcato allargamento del ruolo monocratico che il Giudice Amministrativo potrebbe rivestire nell’esercizio delle sue funzioni.
Tipicamente tale dibattito si riattiva ogni qual volta si ponga storicamente una certa spinta di tipo riformista, ad esempio collegata a qualche evento esterno (si veda, di recente, l’approvazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – PNRR e delle necessità di riforme strutturali ad esso collegate) o alla ripresa, nella pubblica discussione, del tema dell’efficienza della Giustizia Amministrativa e del suo ruolo di controllo di legittimità da considerarsi essenziale nello Stato di diritto contemporaneo o piuttosto, come al contrario talvolta si è sentito affermare, del suo essere sostanzialmente un ostacolo alla crescita economica del Paese[2].
Al di là delle contestazioni svolte sul punto nei confronti dell’esistenza stessa della Giustizia Amministrativa – contestazioni in fondo assai comprensibili, ove si ponga mente al fatto che, per qualunque decisore politico, un controllo di legittimità indipendente ed imparziale è sempre, in fondo, una spina nel fianco rispetto ai propri ritenuti spazi di libera manovra – il dibattito che ciclicamente si ripropone in materia di istituzione di un Giudice Amministrativo monocratico sconta anzitutto un errore di metodo, per poi andare incontro ad una pluralità di errori di merito, che, pur se sospinti da ottime intenzioni, finiscono per lastricare le note strade che conducono lì dove si dice sia tradizionalmente presente solo pianto e stridore di denti[3].
Premessa: l’errore preliminare di metodo
L’errore preliminare di metodo da cui muove l’idea dell’istituzione di un Giudice Amministrativo monocratico è quello – invero assai frequente nella storia istituzionale recente – secondo cui si possa effettivamente riformare l’assetto di una giurisdizione ed in particolare incrementare la sua efficienza, riformando il ruolo, le prerogative e le funzioni del giudice che in quella giurisdizione opera.
L’efficienza di una giurisdizione non è un dato statistico che deriva dal mero computo di quanti fascicoli un singolo giudice riesca a “smaltire” in una data unità di tempo, ma è la risultante di una serie vastissima di variabili, alcune sicuramente di stretta derivazione legale e di pura organizzazione, molte altre anche di natura culturale e, probabilmente, sinanche antropologica, che sfuggono per loro natura ad una formalizzazione aziendalista secca.
Certamente la capacità di una giurisdizione di incidere nel contesto in cui essa opera è chiaramente in funzione del numero dei provvedimenti per unità di tempo che essa riesce ad emanare, ma il dato di per sé non dice ancora molto se non rapportato al fondamentale ulteriore aspetto di quali siano e come oscillino i flussi in entrata di domanda di giustizia e di come, sul piano sostanziale, la risposta che si riesce a fornire abbia un effettiva capacità pacificativa e riequilibratrice o se, al contrario, alimenti il sorgere di ulteriore contenzioso, ad es. in grado di appello.
Di sicuro, nella esplicazione del servizio pubblico necessario che promana da una qualsiasi giurisdizione, il giudice è solo un ingranaggio del complesso meccanismo che conduce al risultato finale dell’amministrare giustizia.
Intervenire esclusivamente su tale elemento, immaginando che, con una serie di espedienti organizzativi, si riescano a recuperare rilevanti spazi di efficienza che giacciono inattuati ed in condizione di abbandono è del tutto velleitario, oltre che appunto metodologicamente sbagliato.
Incidere su una parte di un congegno istituzionale molto articolato come il processo sicuramente conduce a determinare effetti conseguenziali su tutta l’operatività del meccanismo nel suo complesso; non è affatto detto però che l’incisione operi in modo da risolvere i problemi, soprattutto se le cause dei medesimi restano ancora molto poco comprese e certamente imputabili ad una pluralità assai molteplice di fattori, piuttosto che all’operatività mera di un singolo ingranaggio.
Le buone intenzioni (segue…)
Su tali erronee premesse di metodo, il tema del Giudice Amministrativo monocratico viene affrontato, dai fautori di una tale riforma, con tutte le buone intenzioni.
Il punto di forza di tale riforma è spesso indicato nel presumibile incremento di efficienza che si avrebbe ove il giudice venisse sganciato dalle ritualità e dagli ipotizzati rallentamenti causati da quello che si ritiene sia il funzionamento fisiologico di un organo collegiale.
Ai fini che qui rilevano è importante notare un dato, fra tutti.
Il modello organizzativo concreto con cui il giudice gestisce il processo e decide le cause (in particolare, collegiale o monocratico) incide di per sé in misura del tutto trascurabile sui tempi di lavoro del giudice medesimo.
Il processo ha un andamento temporale spesso assai autonomo dalla volontà del giudice che lo amministra, dipendendo assai frequentemente dai vincoli temporali legali alla sua durata (si pensi a puro titolo di esempio alle scansioni previste dall’art. 183, sesto comma, nn. 1-2-3 del c.p.c.), oltre che ovviamente dalla volontà delle parti e dalla complessità dell’istruttoria da svolgere, oltre che da molti altri fattori.
Da tale angolo visuale, gestire le dinamiche processuali in forma collegiale o monocratica non determina significative e sostanziali differenze in termini di risparmio di tempo e di efficienza potenziale a recuperarsi.
Stesso discorso deve essere fatto per la gestione della fase decisoria in camera di consiglio: è illusorio pensare che la decisione di una causa possa essere più rapida se a decidere sia un giudice singolo, piuttosto che un collegio di giudici.
Ovviamente è chiaro che il giudice singolo potrà assumere istantaneamente la decisione nel suo “foro interno”, laddove il collegio dovrà necessariamente dibattere sul punto; ma è altrettanto vero che in collegio si discutono tipicamente le linee portanti di massima di una decisione, decidendo le censure sostanziali poste a base della singola iniziativa giurisdizionale e lasciando ovviamente al singolo estensore la gestione delle questioni “satellitari” e de minimis.
Invero, come ben sa chiunque abbia esercitato concretamente la giurisdizione, il vero “collo di bottiglia” della produzione dei provvedimenti giurisdizionali resta quello della materiale redazione dei medesimi in modo da essere pienamente rispondenti alle richieste delle parti ed agli standard qualitativi che un provvedimento giurisdizionale deve necessariamente avere per essere all’altezza dell’essenziale funzione pubblica che con esso si esercita.
Ove si voglia mantenere il discorso che si sta svolgendo nei termini di un approccio razionale e ragionevole, si deve prendere atto che su tale aspetto si può incidere molto poco: volendo fare un semplice esempio con numeri astratti, se un giudice produce in media 100 sentenze all’anno, ci potrà essere il giudice più produttivo che potrà arrivare a 120-150 sentenze all’anno, così come si potrà essere un giudice meno produttivo che potrà arrivare ad 80 sentenze all’anno, ma di sicuro non si può immaginare che con il semplice mutamento del modello organizzativo con cui i processi vengono gestiti e le decisioni prese questi numeri possano mutare di alcuna significativa variazione percentuale.
Essi infatti dipendono dalle capacità del singolo giudice di saper leggere gli atti di causa e di saper scrivere il relativo conseguente provvedimento, così come deciso.
E se dipendono, come dipendono, dalla capacità “evoluta” e professionalmente matura di leggere e scrivere del giudice “di carriera”, il legislatore potrà fare tutte le riforme organizzative che ritiene, ma su tale piano sostanziale, ovviamente, non arriverà a modificare nulla.
Un’altra buona intenzione che spesso anima coloro che propongono tale soluzione organizzativa sarebbe poi da ravvisarsi nel fatto che il modello del Giudice Amministrativo monocratico permetterebbe una certa variabilità nelle funzioni esercitabili dai singoli giudici, in tal modo permettendo una maggiore elasticità dei percorsi di carriera.
Per quanto si possa in astratto immaginare che in alcuni collegi, a causa ad es. di difformità caratteriali o occasionali dissapori, possa non regnare la concordia che tipicamente si instaura fra professionisti maturi e consapevoli del proprio ruolo e per quanto si possa altrettanto facilmente immaginare che in consimili rare situazioni il singolo giudice possa preferire lavorare da solo piuttosto che nella necessaria cogestione di un rapporto di colleganza “difficile”, è altrettanto vero che la gestione del processo e dell’attività decisoria in chiave collegiale o monocratica non sembra poter costituire un mutamente così radicale di esercizio della funzione giurisdizionale tale da determinare un percorso di carriera innovativo e/o più elastico.
In fondo, sempre dell’applicazione delle medesime regole processuali si tratta, così come fermo resta l’usuale lavoro di lettura e scrittura che istituzionalmente appartiene al giudice tout court, a prescindere dal fatto che esso operi in un collegio o come giudice monocratico.
I tribunali, in generale, sono poi sempre inevitabilmente strutture collettive ed anche nell’ipotesi dell’avvio di funzioni giurisdizionali amministrative monocratiche non ci si potrebbe certo esimere dall’attribuire un ruolo di direzione e coordinamento dell’attività dei singoli giudici in capo al Presidente del Tribunale o al Presidente della relativa Sezione.
Resterebbero, pertanto, tutti da verificare gli effettivi margini di “libertà intraistituzionale” che il giudice monocratico come modello organizzativo potrebbe in concreto offrire al Giudice Amministrativo e al suo specifico assetto di funzioni giurisdizionali esercitabili.
(… Segue) e le strade che esse lastricano e dove tipicamente le medesime portano
Peraltro, come è noto, il modello del giudice monocratico ha avuto già una sua applicazione su larga scala nell’ambito della giurisdizione ordinaria, per il tramite del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51[4].
Con tale normativa, all’esito di un articolato percorso di riforma, il legislatore decise di sopprimere la figura istituzionale plurisecolare del Pretore, riportando le competenze di tale giudice al Tribunale (salve quelle nel frattempo trasferite al Giudice di Pace) e contestualmente ampliando, in modo assai significativo, il numero e la tipologia delle controversie decise non già dal Tribunale quale organo collegiale, ma dal Tribunale quale giudice monocratico.
La riforma, con qualche variante, riguardò sia i giudizi penali, che i giudizi civili.
Orbene, ad oltre vent’anni dall’avvento di tale epocale riordino, è sostanzialmente unanime un giudizio estremamente negativo su tale mutamento degli assetti organizzativi della giurisdizione.
L’istituzione del giudice unico di Tribunale non ha apportato nessun concreto beneficio al sistema della giustizia civile, determinando, invece, negli anni immediatamente successivi, un significativo incremento delle pendenze presso le Corti d’Appello.
La monocraticità delle funzioni ha poi largamente favorito la polverizzazione degli orientamenti, con parti che, non di rado, si vedono dare risposte di giustizia nettamente diverse alle loro domande – pur avendole avanzate nell’ambito del medesimo Tribunale – a seconda del singolo giudice che si sia visto assegnare il relativo procedimento.
La creazione di ruoli monocratici ha fatto inoltre emergere le attitudini non sempre brillanti dei singoli giudici a gestire in autonomia il proprio ruolo, con l’inevitabile sorgere di evidenti disparità nella materiale amministrazione delle cause affidate a ciascuno, con l’esito finale, nel medesimo Tribunale, di avere ruoli d’udienza gestiti in modo molto efficiente e ruoli c.d. “disastrati”, caratterizzati dall’accumulo di pesanti ritardi.
Ne derivava il conseguente obbligo per i Presidenti di procedere a periodiche redistribuzioni delle cause fra ruoli meno efficienti e ruoli più efficienti, creandosi il consequenziale strascico di stress organizzativo correlato al mancato riconoscimento di un giusto plauso in favore di quel magistrato che aveva saputo ben gestire le proprie cause, che viceversa si vedeva premiato con nuovo lavoro aggiuntivo.
Un quadro dunque assolutamente sconfortante, che, malgrado simili esiti già largamente sperimentati in vivo, si vorrebbe importare in una compagine istituzionale quale quella della Giurisdizione Amministrativa, dove invece – almeno al momento – l’apparato organizzativo funziona e riesce anzi a produrre un sistematico abbattimento annuale del dieci per cento dell’arretrato storico[5].
Se mi è poi consentita una considerazione personale di massima, mi ha sempre molto incuriosito come, sull’argomento in esame sia stata sempre poco analizzata l’influenza della natura intrinsecamente impugnatoria della più tipica funzione giurisdizionale del G.A., ossia, per l’appunto, quella che si esercita nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità.
Come è noto, la natura impugnatoria della giurisdizione generale di legittimità implica che essa sia, tanto in primo che in secondo grado, una del tutto omogenea e coessenziale forma di “processo al potere” per come in concreto esercitato.
In relazione ad essa, l’Amministrazione raccoglie i fatti e applica il diritto in prima istanza.
Il Tribunale Amministrativo Regionale è il giudice di appello di tali fatti e di tale diritto, in secondo grado.
Il Consiglio di Stato è, anche, sui medesimi fatti il giudice di nomofilachia/cassazione.
Tanti elementi corroborano tale visione: di sicuro è assai significativo che, quanto alla composizione dei collegi, i TT.AA.RR. abbiano la stessa struttura delle sezioni di Corti d’Appello e il Consiglio di Stato abbia la stessa struttura delle sezioni di Cassazione.
Se così è, la creazione di un giudice monocratico amministrativo avrebbe lo stesso grado di pericolosa innovatività della creazione di un giudice ordinario monocratico di Corte d’Appello.
Mi consta che taluni auspichino addirittura tale riforma.
A me sembra un palese tentativo di insistere nei medesimi errori che hanno reso drammaticamente ingestibile ed inefficiente il primo grado nella giurisdizione ordinaria. Vista la pessima esperienza del giudice unico di primo grado, sinceramente non sembra sentirsi davvero il bisogno di sperimentare il giudice unico d’appello e, di conseguenza e a più forte ragione, il giudice unico amministrativo.
Conclusioni
Non sembra, dunque, che esistano argomentazioni razionali che possano giustificare l’introduzione del Giudice Amministrativo monocratico nell’ambito della giurisdizione amministrativa.
Peraltro, sinanche laddove funzioni monocratiche sono state già introdotte, ossia, in particolare, nella fattispecie relativa alla emanazione di decreti cautelari monocratici presidenziali ex art. 56 c.p.a., l’esito organizzativo a cui si sta giungendo appare notevolmente distorsivo, essendo in corso un peculiare tentativo di una parte della giurisprudenza del Consiglio di Stato volto a permettere un sindacato di secondo grado di tale decreto, malgrado la sua espressa e testuale qualificazione positiva di non impugnabilità (si veda Cons. Stato, sez. IV, decr. mon., 7 dicembre 2018, n. 5971; in senso contrario CGARS, decr. mon. del 25 gennaio 2021, n. 61).
La radice di tale peculiare orientamento si trova essenzialmente, a parere di chi scrive, proprio nella monocraticità delle funzioni, che di per sé permette impostazioni giurisdizionali autonome e, a tratti, sui generis, certo non favorendo in nessun caso la prevedibilità degli esiti e la certezza del diritto, al contrario, come si è visto, moltiplicando le problematiche organizzative dell’apparato giudiziario piuttosto che semplificandole.
[1] Primo referendario, T.A.R. Puglia, Sede di Bari.
[2] “Abolire Tar e Consiglio di Stato per non legare le gambe all’Italia”, articolo di Romano Prodi su Il Messaggero, Il Mattino e il Gazzettino del 11 agosto 2013.
[3] Matteo, 13, 42.
[4] In realtà, la figura del giudice unico in tribunale era già stata introdotta in Italia con la L. 19 dicembre 1912, n. 1311, e col r.d. 27 agosto 1913, n. 1015. La riforma fu motivata essenzialmente da ragioni di ordine finanziario, e all’indomani della sua promulgazione suscitò proteste così vivaci ed estese nell’ambiente giudiziario e forense che il legislatore dovette affrettarsi ad abrogarla (1. 27 dicembre 1914 n. 1404), ripristinando il tribunale collegiale.
[5] Relazione sull’attività della Giustizia Amministrativa del Presidente del Consiglio di Stato del 2 febbraio 2021.