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Magistratura ordinaria: associazionismo e correnti tra valori e potere

di Ettore Manca[1]

Magistratura ordinaria: associazionismo e correnti tra valori e potere.

In passato, l’immagine della magistratura era per lo più associata a nomi di eccezionale grandezza, figure le cui tragiche sorti segnavano, con tratto indelebile, gli interi destini del nostro Paese.

In questo senso, dapprima la stagione del terrorismo, con i tanti magistrati colpiti, e, poi, il periodo compreso tra l’attentato al giudice Chinnici e quelli a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, hanno costituito, pur in modo diverso, situazioni uniche, per la loro drammaticità, nell’intera storia europea.

Da allora, da quelle vicende che univano la comunità nazionale come forse in nessun caso era in precedenza avvenuto, è ormai trascorso molto tempo e l’azione della magistratura ha spesso diviso nei giudizi l’opinione pubblica. Circostanza, d’altronde, per molti versi inevitabile, quanto meno in situazioni di ordinarietà, per l’intrinseca delicatezza del ruolo e dei molti interessi toccati.

Raramente, tuttavia, anche nelle voci più critiche, si era messa in dubbio la complessiva, per così dire, ‘statura morale’ del corpo dei magistrati: pur in presenza di polemiche feroci, in definitiva, mai era venuto meno, nella collettività, il rispetto per la funzione.

Questo clima, oggi, pare significativamente mutato. E se questo discorso riguarda anzitutto la giurisdizione ordinaria, sarebbe superficiale pensare che non tocchi in qualche modo anche quella amministrativa.

Si è così posto sul banco degli imputati, anzitutto, il meccanismo delle c.d. ‘correnti’, ritenute in grado di influenzare la politica giudiziaria degli ultimi decenni e i corsi professionali e umani dei singoli magistrati.

C’è molto di vero, purtroppo. E tuttavia appaiono superficiali e fuorvianti quelle narrazioni che per un verso riportano ogni male della giustizia entro questa prospettiva, e, per altro verso e forse ancor più, riducono il fenomeno e le vicende dell’associazionismo a una volgare contesa sulle nomine dei capi degli uffici. Seppure, dunque, questo sito è principalmente indirizzato ai temi del diritto amministrativo, ci sembra di poter pensare che un rapido sguardo ai percorsi culturali e ordinamentali propri della magistratura ordinaria, più risalenti e articolati, rivesta comunque un certo interesse, anche semplicemente nell’ottica di un possibile confronto rispetto alle dinamiche interne alla g.a.

La magistratura italiana, nel dopoguerra, si muoveva in un contesto di indipendenza ‘esterna’, dal potere politico, e in particolare dal Ministro guardasigilli, estremamente meno netto rispetto a oggi. E anche all’‘interno’, d’altronde, l’autonomia dei singoli magistrati, tanto negli uffici di procura quanto in quelli giudicanti, risultava tutelata solo in parte e debolmente: era, quella, una magistratura di impronta gerarchica, con carichi di lavoro molto minori e però, allo stesso tempo, mal pagata, piuttosto debole sul piano istituzionale e, in grande prevalenza, arroccata su posizioni fortemente conservatrici.

L’Associazione nazionale magistrati nacque nel 1945, ricollegandosi idealmente all’Associazione generale fra i magistrati d’Italia (costituita nel 1909 e poi sciolta, a seguito del rifiuto dei suoi dirigenti di trasformarla in sindacato fascista, il 21 dicembre 1925), e se è vero che quello dell’indipendenza fu da subito tema centrale, è altresì vero che lo stesso risultava ancora indebolito, di fatto, dal sostanziale permanere nella categoria di una solida impostazione verticistica.

La scoperta della Costituzione e dei suoi valori (gli artt. 101 e 107 tutelavano, e si trattava di un dato quasi rivoluzionario, la piena autonomia non solo della magistratura nel suo insieme ma anche dei singoli suoi componenti), l’indipendenza effettiva dei magistrati, l’eguaglianza di tutte le funzioni, l’assegnazione agli uffici sulla base di criteri oggettivi e predeterminati (fino agli 60 neppure la scelta delle sedi di prima nomina avveniva in modo pubblico e contestuale), la previsione di un sistema di mobilità trasparente rappresentano, dunque, conquiste relativamente recenti e sono il frutto, anche, di una dialettica associativa annosa, serrata, talvolta aspra.

Le correnti nascevano all’interno dell’ANM, sul finire degli anni 50, per effetto da un lato del ricambio generazionale determinatosi nella magistratura del secondo dopoguerra, e, dall’altro lato, dei mutamenti sociali intervenuti nel Paese, mutamenti ai quali iniziavano a corrispondere nuove e più articolate domande di giustizia.

Prima e originaria corrente fu Terzo Potere, costituita nel 1957 a raccogliere quasi tutta la c.d. ‘magistratura bassa’ (pretori, giudici di tribunale, sostituti procuratori) e destinata a conquistare rapidamente la guida dell’associazione. La c.d. ‘magistratura alta’ (capi degli uffici, Consiglieri di Cassazione), per risposta, diede vita dapprima – nel 1960 – a una nuova corrente, l’Unione delle Corti, e, poco dopo, uscì – a partire dal gennaio 1961 e fino al dicembre 1979 – dall’ANM, fondando l’Unione dei magistrati italiani.

Sotto la spinta iniziale di Terzo Potere, e poi degli altri gruppi che dai primi anni 60 si andarono formando – e di cui subito si farà cenno -, l’associazionismo giudiziario, a partire dal congresso di Napoli dell’aprile 1957 (nel corso del quale si pose per la prima volta in discussione il peso, fino ad allora preponderante, dei magistrati della Cassazione), contribuì a determinare una radicale metamorfosi nella stessa struttura del corpo giudiziario, con la realizzazione del principio costituzionale della pari dignità di tutte le funzioni, la cancellazione della carriera e le note leggi Breganze (25 luglio 1966, n. 570, sulla nomina a magistrato di Corte d’Appello) e Breganzone (20 dicembre 1973, n. 831, sulla nomina a magistrato di Cassazione), che abolirono esami e scrutini e disposero le c.d. progressioni di qualifica ‘a ruolo aperto’, svincolate cioè dal posto effettivamente ricoperto.

Decisivo per l’associazionismo giudiziario, ma si potrebbe dire per la stessa formazione di una consapevolezza complessiva e matura del proprio ruolo da parte della categoria, fu poi certamente il congresso tenutosi a Gardone Riviera nel 1965, primo vero momento di confronto tra gli orientamenti culturali ormai delineatisi all’interno dell’ANM: oggetto di dibattito furono principalmente la valenza politica dell’attività giudiziaria e la collocazione del magistrato nell’ambito della società. Ancora oggi la mozione finale del congresso, approvata all’unanimità dopo un confronto estremamente intenso, viene considerata uno dei momenti centrali nella storia dell’Associazione. Essa muoveva dal rifiuto della «concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad una attività puramente formalistica, indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese», per rilevare che «il giudice, all’opposto, deve essere consapevole della portata politico – costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione»; e, quindi, giungeva ad affermare che «spetta pertanto al giudice, in posizione di imparzialità ed indipendenza nei confronti di ogni organizzazione politica e di ogni centro di potere: 1) applicare direttamente le norme della Costituzione quando ciò sia tecnicamente possibile in relazione al fatto concreto controverso; 2) rinviare all’esame della Corte costituzionale, anche d’ufficio, le leggi che non si prestino ad essere ricondotte, nel momento interpretativo, al dettato costituzionale; 3) interpretare tutte le leggi in conformità ai principi contenuti nella Costituzione, che rappresentano i nuovi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico-statuale». Si trattò, dev’essere chiaro, di un cambio di rotta rispetto al passato assolutamente formidabile.

Negli anni 70 primi anni 80, quelli del terrorismo, l’ANM rappresentò poi un importante punto di riferimento e un altrettanto importante luogo di confronto, con le assemblee tenute dopo i molti omicidi, spesso anche di colleghi (possono ricordarsi, tra le vittime, Francesco Coco, procuratore generale di Genova; Riccardo Palma, magistrato addetto alla direzione degli istituti di pena; Girolamo Tartaglione, direttore generale degli affari penali presso il Ministero di Giustizia; Fedele Calvosa, procuratore di Frosinone; Emilio Alessandrini, sostituto procuratore a Milano; Nicola Giacumbi, procuratore di Salerno; Girolamo Minervini, vicedirettore presso la direzione degli istituti di pena; Guido Galli, giudice istruttore a Milano; oltre al prof. Vittorio Bachelet, vicepresidente del CSM), a dar sfogo alla rabbia e al dolore ma, anche, a costituire, per l’intera categoria, una forte e credibile testimonianza d’identità collettiva.

Facendo ora un passo indietro, deve rammentarsi come il congresso di Gardone avesse costituito il primo, vero momento di confronto tra gli orientamenti culturali ormai delineatisi nell’ambito dell’ANM. Era infatti accaduto che qualche anno dopo la nascita di Terzo Potere, ed esattamente nel 1962, all’interno di una ANM monca degli scissionisti dell’Umi, venisse costituita Magistratura Indipendente, corrente di impostazione moderata, principalmente incentrata sui principi di unità e apoliticità dell’ordine giudiziario e sulla tutela della dignità morale e materiale della magistratura; e, a seguire, nel 1964, Magistratura democratica, espressione invece dell’ala progressista del corpo, fondata su un’idea di giurisdizione intesa come fattore di eguaglianza e di garanzia delle libertà democratiche e, soprattutto in una prima fase, collegata piuttosto stabilmente ai partiti della sinistra.

Soltanto molti anni dopo, invece, e in particolare nel 1979, si formava il gruppo di Unità per la Costituzione, originato dalla fusione tra la corrente centrista a vocazione sindacale di Terzo Potere, della quale già si è scritto, e il gruppo di sinistra moderata di Impegno Costituzionale, fuoriuscito da Magistratura democratica dopo la vicenda del c.d. ordine del giorno Tolin: era in particolare accaduto che il 30 novembre 1969, a Bologna, un’assemblea di Md approvasse una mozione di aspra critica rispetto all’arresto per istigazione a delinquere del direttore del giornale ‘Potere operaio’ Francesco Tolin, arresto disposto in relazione ad alcuni articoli scritti in difesa della ‘violenza operaia’ contro la ‘violenza capitalista’. L’ordine del giorno, poi letto dai difensori di Tolin in sede processuale, ebbe un notevole clamore mediatico e ciò amplificò una divaricazione già esistente all’interno della corrente. Molti dei dimissionari fondarono, così, il gruppo di Impegno Costituzionale, poi appunto confluito insieme a Terzo Potere, il 17-18 marzo 1979, in Unità per la Costituzione (‘la piena realizzazione dei valori costituzionali deve costituire, così come per gli altri organi dello Stato, anche per la Magistratura, l’obbiettivo principale. La Costituzione, nel recepire i valori fondamentali posti dalla Resistenza come cardini del nuovo Stato, ha attribuito agli stessi carattere di norme giuridiche vincolanti, che, nella rispettiva complementarità dei principi di libertà dei singoli e dei gruppi e di promozione della solidarietà democratica, esprimono il tratto più originale e, al tempo stesso, di maggior rilievo del nuovo ordinamento democratico’).

Nel 2013, ancora, Magistratura Democratica e il Movimento per la Giustizia (costituito nel 1988 da colleghi provenienti da Unità per la Costituzione e da Magistratura Indipendente) diedero vita ad Area, nata soprattutto come cartello elettorale ma poi divenuta, per alcuni versi, soggetto con tratti identitari autonomi rispetto a quelli delle correnti fondative. E da una scissione dal gruppo di Magistratura Indipendente, infine, nasceva nel 2015 Autonomia e Indipendenza, nel cui programma si indica la volontà di eliminare “tutte le scorie e criticità delle correnti tradizionali, trasformatesi da luoghi di elaborazione culturale a meri strumenti di ricerca ed acquisizione del potere, soprattutto in funzione e per il C.S.M.” e di rifiutare “ogni forma di collateralismo con la politica, rinuncia(re) all’ambizione e alle sirene del potere, tutela(re) … una magistratura autonoma ed indipendente anche al proprio interno…”.

Tornando a seguire il filo rosso costituito dall’azione dell’ANM nel suo complesso, quindi, deve ricordarsi come quella degli anni 80 fu un’Associazione impegnata, dopo la serie di attentati di cui si è scritto prima, a sollecitare una maggior tutela per i magistrati più esposti, e, inoltre, ad affrontare l’annosa questione del trattamento economico (che dopo decenni di confronto col mondo politico trovò infine una propria soluzione in un meccanismo di calcolo ponderato riferito alla dinamica delle retribuzioni nel comparto del pubblico impiego). L’ulteriore tema della responsabilità civile dei magistrati, poi, condusse nel novembre 87 a un referendum – che vide una netta affermazione dei Sì – e, qualche mese dopo, alla c.d. Legge Vassalli, la n. 117 del 13 aprile 1988 n. 117. Nel XIX Congresso dell’ANM, tenutosi a Genova nello stesso mese di novembre 87, subito dopo il referendum, vi furono posizioni di scontro aperto e di forte polemica verso l’intera classe politica, e però i magistrati non mancarono di prendere atto del risultato della consultazione e ne riconobbero, in definitiva, il senso di severa critica espressa dai cittadini alle lentezze e alle inefficienze della giustizia italiana.

Gli anni 90, infine, più vicini a noi, furono come tutti ricordiamo quelli di Tangentopoli e, poi, della Bicamerale (1997), con l’ANM impegnata a difendere i valori dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura su entrambi i fronti, mentre, nel primo decennio del 2000, l’Associazione si trovò coinvolta nei progetti di modifica dell’ordinamento giudiziario, poi sfociati nella Riforma Castelli, del 2005/2006, e in quella Mastella, del 2006/2007.

La riforma Mastella, soprattutto, cercò di delineare un modello di dirigenza giudiziaria dotata di capacità manageriali, con assegnazione degli incarichi direttivi e semi-direttivi, necessariamente temporanei, in base alle specifiche attitudini. Ciò portò il CSM, sia pure nell’arco di qualche anno, ad abbandonare progressivamente, per le nomine dei capi degli uffici, il c.d. ‘sistema delle fasce’, ritenuto non coerente con il superamento del criterio dell’anzianità fatto proprio dalla riforma. Anzianità che, così, divenne parametro di valutazione del tutto residuale. Tale circostanza, da un lato, contribuì a determinare un contesto di forte competizione tra i magistrati, e, dall’altro lato, ampliò in modo esponenziale la discrezionalità del Consiglio – neppure accompagnata, peraltro, dalla previsione di criteri di valutazione sempre chiari e oggettivi -, e, quindi, il potere dei suoi componenti e delle rispettive correnti, con i relativi effetti di degenerazione cui si è accennato in precedenza.

Effetti, questi, sui quali questa rapida cronaca si ferma.

Oggi, così, soltanto si aggiunge, il mondo politico e la stessa magistratura dibattono, come la cronaca quotidiana ci mostra, su possibili ipotesi di riforma del sistema giudiziario e, in particolare, del CSM.

Ancor prima, in ogni caso, all’interno delle correnti, i magistrati, o molti di loro, cercano di fare i conti con una crisi di idealità che trova, a ben guardare, origini e radici lontane, anche di carattere storico e sociale. Provando, però, a non rinunciare al bene primario del confronto tra idee e sensibilità diverse, all’importanza del ragionare insieme – e magari anche del litigare -, alla tutela di un pluralismo forte e, si spera, trasparente, poiché senza questi valori, senza questi contenuti, senza questa passione, in definitiva, non soltanto la storia dell’associazionismo giudiziario ma, anche, quella della stessa intera magistratura italiana sarebbero, a ben vedere, profondamente diverse e certamente più povere.

 

[1] Giudice del T.A.R. di Lecce, già componente della Giunta dell’ANMA