di Angelo Fanizza[1]
Falsi Movimenti
Riflessioni sulle udienze “da remoto”
Com’era inevitabile che accadesse, la pandemìa ha costituito uno spartiacque anche per la Giustizia Amministrativa.
È inutile fingere che l’attività giurisdizionale sia quella di prima, perché questo non è vero; piuttosto, è vero che l’impegno nel guardare le carte processuali, nel confrontarsi (pur tra mille difficoltà) nelle camere di consiglio, nel dedicarsi alla stesura delle sentenze è rimasto lo stesso. Ma la mancanza dell’udienza fisica è sotto gli occhi di tutti.
Indirettamente, il tempo odierno evoca la sfida riguardante il futuro del processo amministrativo.
Nelle riviste giuridiche, nei dibattiti tra colleghi, nelle occasioni di pubblico confronto si parla molto della digitalizzazione della Giustizia Amministrativa; un fenomeno che non investe soltanto il processo, ma i suoi principali protagonisti, cioè magistrati e avvocati.
Quella che, nelle parole del Presidente Patroni Griffi in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, è stata definita una situazione “eccezionale”, da parte di altri viene oggi prefigurata come una “opportunità” da sistematizzare e stabilizzare anche oltre la conclusione dello stato di emergenza.
Non è stato difficile pronosticare un’aperta contrapposizione tra entusiasti e tradizionalisti: guelfi contro ghibellini.
A voler valutare queste posizioni con limpidezza di pensiero, è chiaro che emerge un profilo – rilevantissimo – di natura tecnica, che ovviamente non può essere discusso, né tantomeno definito, in questa sede.
Né si mette in discussione la tutela della salute di chi opera nelle aule di Giustizia.
Si pone, invece e prima di tutto, il problema della messa in discussione di importanti principi processuali: il diritto di difesa, il contraddittorio, direi la “soddisfazione” della nostra comunità processuale di poter trattare e discutere bene le controversie.
Spiegare bene le posizioni ed essere certi di poterle capire altrettanto bene. Valori radicati, basilari, non certo “tecnocratici”.
In fondo, il punto capitale di ogni questione è il rischio di una Giustizia Amministrativa che fa i numeri, che produce sentenze, ma che opacizza la propria immagine nella cupa luce di un PC.
Francamente, ho molti dubbi che questa possa essere una prospettiva positiva, e ciò sulla base di due, sostanziali, perplessità.
La prima di tali perplessità riguarda la percezione – molto netta – che discutere bene le cause sia diventata una questione secondaria, da derubricare: non è un mistero che molti avvocati ormai lo pensino, e la mia personale opinione è che questa arrendevolezza debba essere, senz’altro, combattuta ed eliminata.
Il che implica una decisa presa di coscienza circa l’essenzialità della Giustizia Amministrativa nella nostra società, alla quale attribuire una meritata qualificazione di servizio essenziale.
E questo – cerchiamo di essere chiari e onesti con noi stessi – non per ottenere un vaccino prima degli altri, ma per dare alla comunità un segnale chiaro che le garanzie per il cittadino restano ferme; che esiste sempre un luogo fisico dove trovare una risposta giusta e rapida; che possa essere prontamente soddisfatta l’esigenza di certezza del diritto di un’Amministrazione che voglia capire se ha condotto legittimamente o meno una procedura di gara.
Non è poco di questi tempi.
Si tratta allora di recuperare un orgoglio operativo, che presuppone di dover dare una risposta, che ancora oggi latita, ad una domanda semplice ma scomoda: abbiamo tutti noi (Amministrazioni, magistrati, avvocati, e mondo politico) la voglia e la forza di ripristinare al meglio le condizioni di un processo in pienezza?
La seconda perplessità è legata al fatto che una Giustizia Amministrativa che opacizza la propria immagine dietro un PC inevitabilmente rischia – suo malgrado – di delegittimarsi nella vita pubblica.
Si tratta di un rischio veramente grande.
La mia impressione è che se manca l’istituzione fisica, se manca – mi si perdoni l’enfasi – la carnalità del processo, si agevola una subcultura molto pericolosa.
La subcultura secondo cui, tutto sommato, il TAR non sia poi così necessario; che sia sostituibile, se non proprio inutile; che le Amministrazioni possano veleggiare da sole in nome del cosiddetto primato della politica.
Sembra tornare in auge la presunzione di legittimità degli atti amministrativi, quella degli anni 30, che però sarebbe null’altro che un simulacro in una società complessa come quella di oggi: un’idea di restaurazione che farebbe evaporare, d’un tratto, tutte le garanzie, tutte le conquiste della legge 241, prima fra tutte la ponderazione degli interessi nel procedimento.
Un TAR che, quindi, corre il rischio di essere percepito come un antagonista che interviene nella vita delle Istituzioni, che non comprende la sensibilità politica dei problemi o che, addirittura, “ostacola” l’azione di governo, nazionale o locale che sia.
L’unica arma – un’arma bianca, ma formidabile – che ci resta è il principio di legalità, che costituisce il vero ed autentico baluardo contro l’arbitrio politico e garantisce costantemente l’individuazione dell’interesse pubblico prioritario; il principio che è la ragione esistenziale dei TAR.
Per queste ragioni, tornare ad essere comunità processuale, viva e presente, è questione urgente, da risolvere al più presto.
[1] Magistrato del T.A.R. di Bari, già Segretario amministrativo dell’ANMA